Coloro che si affermarono primi per valore e per senno (…) raccolsero in un solo spazio gli uomini prima sparsi e li trassero dalla originaria selvatichezza alla giustizia e all’umanità. Nacquero allora da ciò quelle istituzioni finalizzate all’interesse comune, che noi chiamiamo “pubbliche”, quelle aggregazioni di uomini che ebbero in seguito il nome di civitates, quegli agglomerati di abitazioni che definiamo urbes, e che, adottate le leggi divine e quelle del diritto umano, furono cinte da mura.
(Cic., Pro Sest. XLII, 91)
La città è un insediamento stabile con una storia lunghissima che si perde nei meandri del tempo. Sebbene una univoca definizione del termine sia sconsigliata e ci siano diverse opinioni riguardo ai casi in cui un determinato insediamento antico possa essere considerato tale, le prime vere città sono a volte indicate come grandi insediamenti nei quali gli abitanti non si limitavano a coltivare le terre circostanti, ma cominciavano a dedicarsi a occupazioni specializzate, e nelle quali il commercio, l’immagazzinamento dei cibi e il potere erano centralizzati, anche al fine di organizzare le complesse attività correlate alla gestione degli spazi (irreggimentazione delle acque, opere di bonifica, manutenzione degli argini, regolamentazione e destinazione delle aree collettive...) o alla creazione di specifiche infrastrutture (come quelle legate alla difesa o alla viabilità), per realizzare le quali era necessario coordinare l’attività di molti uomini, indipendentemente dalla loro “condizione giuridica”. Secondo questa definizione, le prime città di cui possiamo dire di avere notizia erano situate in Mesopotamia, come Uruk e Ur, o in Egitto, lungo il Nilo, o ancora nella valle dell’Indo e in Cina.
Le prime città si sviluppano, quindi, in zone fertili, lungo grandi fiumi e vaste pianure agricole o in punti che costituiscono passaggi obbligati per le vie commerciali. Le città greche, pur piccole e povere al confronto con le metropoli orientali, definirono però, a partire dalla seconda metà del I millennio a.C., un modello per lo sviluppo successivo della civiltà occidentale.
La polis, così come la città romana, non si distingueva dal villaggio per la sua grandezza o densità, quanto piuttosto per la sua complessità. E infatti la città antica conteneva gli organi necessari per l’identità politica comune: il focolare consacrato al dio protettore (pritaneo), l’assemblea dei cittadini (agorà) e il consiglio dei nobili o dei rappresentanti dell’assemblea (bulè). La città era cinta di mura, ma offriva in guerra un rifugio e un deposito di beni anche alla popolazione esterna, non ammettendo divisioni interne, ma solo una classificazione funzionale fra le aree private, le aree pubbliche e le aree sacre. Lungo le strade che uscivano dalla città erano ubicate le necropoli; nelle vicinanze più prossime si estendeva il territorio agricolo (chora), circondato dalle più lontane zone di monti e boschi (eschatià).
Quando la città raggiungeva un assetto stabile, si preferiva non turbarlo con aggiunte successive; dunque un boom demografico poteva portare alla fondazione di una colonia, evento sin da subito percepito non solo come mera operazione di carattere politico-militare, ma anche e soprattutto economica e religiosa. Di fatto predisporre lo spazio della nuova città poteva equivalere a disegnare quello di un tempio. La scelta del luogo ideale, del tipo di terreno più adatto e della sua posizione rispetto all’orizzonte circostante, la determinazione del tempo e del momento più favorevole alla fondazione erano elementi indispensabili per l’individuazione dello spazio da delimitare e da sottrarre al caos della natura, al punto che molto spesso le imprese coloniali ricevevano un suggello oracolare, di sovente delfico, che ne attestava la chiara dimensione religiosa. E, in effetti, nel tempo, l’impresa coloniale assunse proporzioni tali che sarebbe stato addirittura inconcepibile progettarla senza assicurarsi l’intervento positivo di una divinità oppure la sua protezione.
A capo del contingente di persone inviato da una metropoli a fondare una colonia era l’ecista – dal greco oikizo (rendo abitabile, fondo, insedio) – colui che, scelto dall’oracolo, guidava i compagni nella nuova terra, presiedeva alle cerimonie religiose, fondava i primi santuari, comandava l’esercito dei coloni (negli scontri con eventuali indigeni ostili), organizzava la distribuzione dei lotti di terre; un uomo cui la comunità, dopo la morte, tributava un culto eroico a simboleggiare la consapevolezza della propria nuova identità.
Di fatto, l’impianto regolare trasmesso alle colonie dalle madrepatrie e l’equilibrio rappresentato dal dualismo città-campagna, tipico della cultura greca e romana, sono codificati nella teoria urbanistica di Ippodamo di Mileto, secondo la quale tutta la città è tracciata sulla falsariga di un reticolo regolare, circoscritto da un perimetro irregolare che ripristina, ai margini esterni, la continuità con l’ambiente naturale. Nato nell’ultimo decennio del VI sec. a.C., architetto e urbanista, Ippodamo, dopo aver diretto la costruzione del Pireo, partecipò nel 444 a.C. alla fondazione, voluta da Pericle, della colonia panellenica di Turi, ricevendone la cittadinanza. La tradizione gli attribuisce la concezione di città tracciate su assi ortogonali, con una distinzione tra aree sacre, pubbliche e private. È Aristotele stesso che riferisce anche l’aspetto più politico del pensiero ippodameo, il quale prefigurava l’ordine sociale di una sorta di città ideale, che avrebbe dovuto ospitare al massimo 10.000 abitanti, divisi in tre classi: quella degli artigiani, quella degli agricoltori e quella degli uomini armati. Lo schema urbanistico di Ippodamo prevedeva poche larghe vie longitudinali, tagliate da alcune vie ortogonali e da numerosi vicoli equidistanti in cui era assente un vero e proprio incrocio centrale; entro questo schema si inserivano grandi edifici e piazze. L’edilizia privata era regolata secondo le norme di uguaglianza cui si ispirava tutto il pensiero sociale dell’urbanista greco. L’impianto urbano su assi ortogonali era in realtà già noto, specie nel mondo orientale. I Greci stessi avevano messo a punto un modello di strutturazione urbana, costituito da una rete viaria ortogonale, fatta di strade principali (plateiai) e strade secondarie (stenopoi), che divideva lo spazio in isolati quadrangolari regolari, spesso in strigae molto allungate. Ippodamo, quindi, probabilmente teorizzò l’applicazione di un metodo urbanistico già usato empiricamente in precedenza, regolarizzandolo ulteriormente e infondendogli un nuovo spirito, evidente negli strepitosi effetti prospettici e scenografici che caratterizzarono i suoi interventi. Il suo progetto di creare aree in cui non fosse ammessa la proprietà privata influì probabilmente, per certi aspetti, sul modello di città ideale tracciato da Platone nella Repubblica. Più tardi, con le conquiste di Alessandro, la misura della città-stato tradizionale venne definitivamente superata; e le nuove capitali ellenistiche – Alessandria, Antiochia, Pergamo – potevano sostenere il confronto con le grandi capitali orientali.
I Romani, che realizzarono l’unificazione politica di tutto il Mediterraneo – sebbene Roma, il villaggio divenuto caput mundi, l’Urbs per antonomasia, per le sue stesse dinamiche formative si fosse sottratta a una pianificazione d’insieme – seppero fondere la “disciplina” etrusca (maestri, i Tyrrenoi, nell’organizzazione e delimitazione degli spazi civili e religiosi, cui si faceva risalire una parte significativa della tradizione dei gromatici, antesignani dei moderni geometri e agrimensori) con l’immensa eredità culturale greca definendo e codificando una serie di metodi finalizzati al controllo del territorio: la divisione reticolare per l’appoderamento agricolo e la fondazione di nuove città, con tutto il corredo di nuovi impianti (acquedotti, fognature) e di edifici pubblici (basiliche, terme, teatri, anfiteatri, circhi), oltre all’allestimento di una vastissima rete di infrastrutture (le strade e le opere militari di confine).
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